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Il Treno

treno percorre i binari come se fosse la prima volta che le più alte montagne dell’Appennino abruzzese vengano perforate da questa macchina sferragliante. Il clangore dei metalli entra nelle mie orecchie e vien fuori dalla mia bocca, aperta verso il mondo immenso e sfocato che guardo attraverso i tuoi occhi persi nei miei sensi. Sei solo una sensazione primitiva, così attaccato alle mie spalle rese nude dalle tue mani ruvide. Mi hai trascinato qui, contro la porta del bagno, approfittando del buio che per lunghi tratti investe lo scompartimento quando il treno entra nelle gallerie. Una donna anziana ci guarda imbarazzata nell’alternanza di luce e tenebra, povera donna, non sa se ciò al quale sta assistendo sia davvero l’incontro amoroso di due persone o un’allucinazione data dai farmaci anti-parkinson che assume quotidianamente, come suggerisce il suo incessante tremore. Mi fa un po’ pena, deve sorbirsi la mia lingua che muta si affaccenda dentro la tua bocca sgraziata. Chissà cosa starà pensando? Forse che non c’è più moralità, che i giovani d’oggi non hanno regole e che io prima o poi farò una brutta fine? Forse pensa che sia una di quelle escort d’alto borgo i cui video riempiono ormai siti web, social e giornali. Mentre continui a baciarmi ed entri con la lingua nel mio orecchio ormai umido, mi chiedo chi tu sia. Sì, perché non lo so, non so da dove vieni o dove stai andando. So solo che sei qui, concentrato ad assaporare il mio odore, felice perché non ti era mai capitato di abbracciare una sconosciuta sul treno. Forse non ti capita di abbracciare nessuno da anni e il calore del mio corpo sta facendo risvegliare il torpore al quale ti eri abbandonato. Sei salito alla stazione di Bari e l’ambiente circostante si è improvvisamente riempito di stantio color ruggine. Come non avrebbe potuto? Quello è il colore della noia, della tristezza, della vecchiaia e tu sei noioso, triste e vecchio, tanto quanto è feroce e vivida quell’unica scintilla che sono i tuoi occhi. Quando sei entrato nello scompartimento hai guardato prima il posto libero poi me seduta sul sedile di fronte al tuo, ma contrario al senso di marcia. Ti sei agitato. Mi hai chiesto: «Mi scusi, potrei sedermi io al suo posto. Sa signorina, adoro sentire la spinta del treno che mi risucchia all’indietro». Ho pensato subito che fossi matto e in effetti lo penso ancora. Appena seduto hai tirato fuori da una bisunta borsa di cuoio da professore spiantato una copia di “La morte a Venezia” di Thomas Mann. Mi sarei aspettata un “Il Sole 24 Ore” o meglio “La Repubblica”. Magari un libretto del genere “Come investire i propri soldi”, qualche fascicolo sui mutui in stile “devo comprare casa a mio figlio e mi sto informando sui tassi d’interesse”. Invece, solo la copia chiazzata di caffè, bigia come la tua faccia, di un classico della letteratura inglese. Come potevo tirar fuori il mio ”Il giocatore”, senza che le tue lunghe ciglia si fermassero ad osservare il contrasto tra la lucida copertina color cioccolato e il biancore morbido delle mie cosce serrate? Ma perché non mi sono messa un pantalone stamattina? Hai indugiato molto su quel particolare e io, che ormai ero più curiosa che indispettita, ho sorriso della coincidenza letteraria. I tuoi occhi color del legno palpitavano. Guardavi dentro l’ombra della mia gonna troppo corta, trattenendo a stento un sospiro. Ho resistito un attimo, giusto il tempo di far correre ancora un po’ la macchina che ci trasporta ingorda, come le tue pupille dilatate. Mi hai sorriso e nella veemenza del tuo sguardo ho scorto sofferenza e vita, tanta desolante solitudine. Farfalle color noce hanno preso a volteggiare nel mio stomaco. Per sfuggire al mio stesso ardore sono corsa in bagno. Mi hai seguita, ti ho trovato dietro la porta della piccola toilette intento a osservare il cielo dal finestrino. Il vento, che entrava a folate da un finestrone aperto, ha fatto giungere il tuo odore dolciastro. Ora sono qui, con le tue dita dentro il mio corpo…mi sfugge un leggero gemito. Il tuo non giovane ventre molle, spento e attento a ogni mio respiro, forma un piacevole contrasto con il mio seno sodo. Mi guardi, sono solo un casuale afflato di vita. Il soffio vitale, che assumi ingoiando il mio respiro, ti ridona il calore che cerchi. Continui a guardarmi, i tuoi occhi sono promesse vaganti sul mio seno e m’imbarazza vedere come mi osservi, rivela quel che sto facendo. Chiudo gli occhi, presto dovremo scendere e il non vedersi mai più sarà una dolce sofferenza. Una frenata brusca mi fa sbattere la testa contro il finestrino. Risveglio doloroso da un sogno a occhi aperti. Sorrido nel guardarti intento nella lettura del “Corriere dello Sport”. Distrattamente alzi il marrone scuro dei tuoi occhi dalla Juve, ignaro. Ti do’ un’ultima occhiata, prima che il mio sguardo venga trascinato lungo la verde vallata, in cerca di un’altra storia che mi faccia passar il tempo in attesa che il treno arrivi alla stazione di Bologna. Racconto di Silvia Aprile.